«Anvedi er re! T’ha detto proprio male oggi, ve’? Ma se pensi che te ne poi annà da ‘sto posto senza sentì quello che c’ho da ditte, te stai a sbaglià de grosso.»
La sua voce tagliente mi penetra come una lama, ma non riesco a nascondere la mia ostinazione. Continuo a camminare per i corridoi del Quirinale, cercando di ignorare le sue parole pungenti. E’ solo una cameriera, dopo tutto.
«Ahó, mo’ nun te se regge manco la corona in testa, eh?» continua con un sorriso beffardo. «Ma che pensavi che senza de te non eravamo capaci? Ah scemo! La Repubblica è ‘na cosa bellissima, hai capito? Er popolo che conta, è l’idea de giustizia e uguaglianza pe’ tutti. La gente c’è morta pe’ sto futuro!»
La sua voce graffiante mi irrita, ma non posso negare l’effetto che ha su di me. Mentre camminiamo insieme, mi rendo conto che le sue parole hanno un senso, che la Repubblica potrebbe portare benefici a tutti. Ma la mia paura del cambiamento mi impedisce di ammetterlo.
Continuiamo a discutere, la sua voce risuona ovunque. Lei con la sua sicurezza e io con la mia ostinazione. Alla fine, mi allontano senza dirle una parola, ma dentro di me so che continuerà a tormentarmi per sempre.
Lei rimane indietro, un simbolo vivente del trionfo. E con tutto il fiato che ha in corpo mi grida:
«La libertà, signor Re, è come un vento de burrasca che soffia e rompe le catene. La poi negà, ma nun la poi cancellà. E quanno er vento accarezza il volto de un popolo, la sua forza nun se ferma più.»
Mentre lascio il palazzo, sento quel vento sulle mie spalle. La folla continua a festeggiare, ma io cammino solo, portando con me il rimpianto di non aver capito il vero valore di tutto questo.
