La polvere della centrale si infilava ovunque, nei capelli, nelle unghie, persino nei pensieri. Ogni giorno tornavo a casa avvolto da quel manto grigio, come una seconda pelle che mi segnava e definiva. Appena entrai, il telefono squillò.

«Benedetto, sono il maresciallo. Vieni, che tuo figlio sta un’altra volta qua.»

Rimasi sotto la doccia con gli occhi chiusi, l’acqua calda mi scorreva sul corpo stanco, lavando via la fatica della giornata ma non l’angoscia che mi opprimeva. Mi asciugai in fretta, indossai abiti puliti e uscii di casa, diretto verso la caserma. Le luci della città passavano come ombre sfocate, riflessi di un mondo che sentivo sempre più estraneo.

Salii le scale e lo vidi lì, seduto su una panca, le manette che gli serravano i polsi, lo sguardo fiero e una rabbia silenziosa negli occhi. Testa di cazzo, pensai, ma le parole non uscirono. Feci un cenno al piantone per indicare che ero lì per lui.

Nel tragitto verso casa, il silenzio era carico come una tempesta trattenuta a stento. Lo guardavo di sfuggita, cercando di riconoscere in lui il bambino che un tempo si entusiasmava per le mie storie sul lavoro e sull’energia elettrica che era arrivata in quel paese di poveri contadini.

«Non puoi continuare così, André,» dissi, «queste proteste non risolvono nulla. Ti stai solo mettendo in pericolo.»

«Papà, tu non capisci,» rispose lui, con una passione che mi tagliava come un coltello. «La centrale sta distruggendo tutto. Non possiamo restare fermi mentre il mondo cambia.»

Le sue parole mi colpirono come pietre. Io vedevo solo il lavoro per mettere il pane a tavola. Lui guardava oltre, vedeva una minaccia, una battaglia da combattere.

In quel momento, la mia mente ritornò a tanti anni prima, quando la centrale era stata aperta. Ricordai le discussioni di mio padre, un contadino che si era opposto fermamente all’industrializzazione della nostra terra, finendo più volte dal maresciallo. E ogni volta la mia povera mamma e io andavamo a riprenderlo. Lui ci camminava d’avanti, ma io non lo avevo seguito. Mi ero adeguato, scegliendo la strada più facile.

«Lo so che vuoi fare la cosa giusta,» dissi, cercando di trovare le parole «Ma ci sono modi più sicuri per farlo. Non voglio vederti finire in galera o peggio.»

Andrea mi guardò, e per un attimo vidi il bambino che era stato, con la sua vulnerabilità e determinazione. Poi il suo sguardo si indurì di nuovo.

Il resto del viaggio lo passammo in silenzio, un silenzio che raccontava delle nostre vite così diverse, delle nostre speranze e paure. Quando arrivammo a casa, Andrea si chiuse nella sua stanza senza dire una parola. Io rimasi in cucina, il vuoto davanti a me.

La notte passò lentamente, tra pensieri tormentati e ricordi di giorni migliori. Mentre il sole iniziava a sorgere, mi decisi. Chiamai Nazareno, l’amico di una vita con il quale avevo condiviso speranze di cambiamento e futuro.

Il telefono squillò più volte. Alla fine, la voce debole dall’altro capo della linea.

«Benedè, ma so le cinque. Ho fatto il turno di notte. È successo qualcosa?»

«Sta davvero combattendo per quello in cui crede, Nazarè. E c’ha ragione,» risposi con voce sommessa, sentendo il peso delle mie parole.

Restò in silenzio per un istante. Poi, lentamente, come se stesse parlando fra sé: «Le idee non muoiono, Benedè. Forse è ora di riprendere quella nostra. Te la ricordi? Qui di terra ce n’è tanta e poi si fidano perché ci siamo nati e poi ci sappiamo fare con la corrente. Stamme a sentì.»

Annuii anche se non poteva vedermi e ci accordammo di discutere dei dettagli davanti a un buon caffè al bar del circolo

Poi, con il cuore più leggero, mi incamminai verso la finestra. Guardai fuori, verso il sole che stava sorgendo all’orizzonte.

Anche a casa di zia Caterina avevano finito di installare l’impianto fotovoltaico.


Lascia un commento