Anche quel pomeriggio fu svegliato dal rumore incessante del trapano del vicino.

I lavori di ristrutturazione dell’appartamento andavano avanti da settimane e Nabil non vedeva l’ora che quello strazio finisse presto. Si era addormentato da poco, di ritorno dall’università. Aveva raccolto le braccia sul tavolino in camera sua a mo’ di cuscino, poggiandoci la testa e chiudendo gli occhi stanchi.

Cinque minuti gli erano bastati anche per sognare. La sua famiglia in Pakistan, il cielo sempre azzurro di Karachi, la fabbrica di motori dove suo fratello lavorava come operaio. Venticinque rupie al giorno per dodici ore di lavoro. La fabbrica era molto grande e i capi erano tutti stranieri e dalla pelle bianca. In Pakistan solo gli operai, pagati male e sfruttati fino alla morte.

Per questo Nabil aveva deciso di venire in Europa. Voleva studiare da ingegnere e tornare in quella fabbrica da capo. E quel pomeriggio di settembre suo nonno tirò fuori un enorme fascio di banconote da una scatola di latta che teneva in un buco del muro e le poggiò sul suo letto per contarle. Cinquantamila rupie per comprare il biglietto aereo, il resto per le prime necessità.

«Io non fuggo nonno», gli aveva sussurrato Nabil in aeroporto, «sto volando! Mi rivedrete tornare presto.»

Le lacrime bagnarono quella promessa mentre correva all’imbarco senza voltarsi indietro.

Al suo arrivo in Italia, i soldi del nonno finirono subito nelle tasche di un connazionale che lo aspettava in aeroporto con la scritta NABIL su di un pezzo di cartone. Era un ometto basso dall’età imprecisabile che indossava un abito verde sdrucito, una cravatta coperta di macchie e un paio di scarpe da ginnastica con lo strappo. Da come si rivolgeva alla gente del posto sembrava parlasse molto bene l’italiano. Tutti lo chiamavo zio Vito e si guadagnava da vivere aiutando quelli come Nabil a trovare un alloggio e anche un lavoro.

Nabil aveva bisogno di lavorare. Era rimasto senza denaro e così non avrebbe potuto cominciare gli studi per realizzare il suo grande sogno. Zio Vito lo caricò sul furgone e partì a tutta velocità.

«Conosci un po’ la lingua, fratello?», gli chiese mentre infilava una curva dietro l’altra e lo sballottolava nel triste abitacolo del furgone, pieno di arnesi da lavoro ammassati alla rinfusa e di un tanfo insopportabile.

«Non ti preoccupare che ti diamo una mano noi. Basta pagare, ah ah ah.»

E rideva di un enorme riso imbecille, mostrando impudentemente i suoi denti marci.

«Ti piacerebbe fare il petroliere o il giornalista?», gli domandò cercando di inquadrarlo nello specchietto retrovisore.

Nabil scartò da subito il giornalista. Non amava i quotidiani e le chiacchiere. Si sentiva un uomo di poche parole. Scelse allora di fare il petroliere. Gli sembrava un lavoro più concreto, anche se non immaginava in che cosa potesse consistere. Aveva timore di chiederlo a zio Vito e tenne quel dubbio per se.

Qualche sera dopo il suo protettore passò a prenderlo a casa. Urlò più volte il suo nome dal fondo del cortile fra le proteste dei vicini di casa che, vista l’ora, erano già andati a dormire.

Caricò Nabil sul furgone e lasciandosi dietro una coltre di fumo nero, si diresse verso la tangenziale. Il tragitto fu abbastanza breve e dopo qualche chilometro zio Vito imboccò un area di servizio.

«Qui sotto c’è tutto il petrolio che vuoi», gli disse sarcastico. «Tiralo fuori, se sei bravo. Sai come funziona?»

Nabil annuì e quella notte cominciò la sua carriera di petroliere, aspettando le auto che si fermavano al self-service per il rifornimento. Uomini e donne che non volevano sporcarsi le mani o i vestiti o, semplicemente, che non si sentivano capaci di una tale impresa.

All’ arrivo dei clienti Nabil si avvicinava sorridente, intuendo il rifiuto di chi voleva fare da sé per non affidare i propri soldi ad uno sconosciuto, ma anche la solidarietà di chi, per evitargli l’umiliazione dell’elemosina, era disposto a mostrarsi incapace di fare rifornimento e pagare il carburante qualche centesimo di euro in più.

Quei soldi andavano divisi con zio Vito che puntuale passava a riprenderlo con il furgone all’alba. Sui sedili consunti e impolverati sedevano altri petrolieri che di notte popolavano i distributori della Capitale. Volti stanchi e infreddoliti, dopo la lunga notte passata all’addiaccio, che non avevano neanche la forza di guardare fuori dai finestrini. Zio Vito li conduceva nelle loro case di periferia e raccoglieva il gruppo pronto a vendere i giornali ai semafori al mattino.

Il distributore di notte diventava la seconda casa di Nabil. Sotto la pensilina di lamiera arrugginita aveva ricavato un piccolo angolo studio dove aspettava i clienti rileggendo gli appunti del mattino e studiando i libri presi in prestito in biblioteca.

Al suono del clacson scattava in piedi e correva al distributore e, mentre riempiva i serbatoi, parlava con i clienti che gli chiedevano incuriositi le ultime novità.

Fra non molto sarebbe diventato un ingegnere e avrebbe discusso una tesi di laurea sui motori ibridi con celle a combustibile, un tipo di motori per produrre elettricità senza bruciare nulla grazie ad una reazione tra idrogeno ed ossigeno.

Era quello il futuro e tutti lo ascoltavano stupiti mentre descriveva le auto che ognuno avrebbe ricaricato a casa propria senza bisogno del distributore e dai tubi di scappamento sarebbe uscito solo vapore come quello dell’aerosol. Le città sarebbero diventate enormi unendosi l’una con l’altra e ogni casa avrebbe avuto i sistemi per l’energia pulita del sole e del vento. E poi tanta tecnologia avrebbe aiutato tutti a vivere meglio.

«Nabil, ma sarà vero?», gli chiedeva il suo amico Fadì, sempre affascinato dai suoi racconti.

La notte avvolgente e fredda scorreva lenta con le sue ombre sopra le luci della città, dei suoi palazzi, delle sue strade, dei suoi lampioni, delle macchine che si scavano con i fari un passaggio attraverso il buio.

Col volto incollato al finestrino Fadì guardava la città svegliarsi mentre migliaia di automobili la assediavano lente. Gli sembrava che tutto fosse sempre uguale a se stesso. Niente di nuovo, nessuna delle fantastiche tecnologie che raccontava il suo amico ingegnere.

Forse arriveranno quando io sarò già morto, pensò.

E allora sai che c’è? Speriamo che il petrolio non finisca mai.


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