La pioggia scende incessante, disegna linee irregolari sull’asfalto. Ogni goccia è un colpo secco, un ritmo insistente che riempie la notte. Cammino veloce. Il cappuccio non basta: l’acqua scivola lungo il viso e si insinua sotto il colletto. La stazione si avvicina, una sagoma che spunta nel grigio, illuminata da luci gialle tremolanti.

Sotto le tettoie ci sono ombre, figure accovacciate, frammenti di vite. La pioggia rimbalza su tutto, meno che su di loro. È come se li avesse dimenticati anche lei.

Mi fermo, esitante. Un uomo si stacca dal buio, avvolto in una coperta ruvida e strappata. La barba gli copre quasi tutto il viso, ma gli occhi, quegli occhi, mi fissano come se sapessero.

C’è qualcosa nella sua figura che mi paralizza: forse la stanchezza degli anni, forse il peso delle sue parole non ancora pronunciate.

«Cerchi Omero?» dice, senza esitazione. Annuisco. «Sì.»

Lui fa un gesto con il mento, indicando il fondo della banchina. «Portatelo via, a zì. Questo non è posto pe’ lui. Noi ce semo abituati. Lui no. C’ha ancora qualcosa da perde.»

Non rispondo. Le sue parole mi restano dentro mentre avanzo. Dal nulla, come un’ombra tra le ombre, compare una donna. Trascina una scatola di cartone come fosse un carrello per bambini. Il cappello rosso storto sulla testa, i passi leggeri malgrado le scarpe piene d’acqua.

«Omero racconta le storie,» dice. «Ci parla del mare, delle onde, di uno che non trova mai casa. Le sue parole ce fanno un po’ caldo.»

Poi si allontana, sparisce nell’ombra. Continuo a camminare. Vedo altri volti, altri sguardi che si abbassano, altri ancora che mi osservano come se stessi violando il loro spazio.

Uno di loro, un ragazzo con una giacca troppo grande, alza una mano. Mi indica un punto più in là. Non dice niente, ma il suo sguardo è fisso, come per assicurarsi che capissi. Il gesto è lento, quasi solenne, un invito che non posso ignorare.

Lo trovo. Mio padre. Il professor De Angelis, che una notte di febbraio è uscito di casa per venire ad abitare qui e non è tornato più.

Sta seduto su una panca di ferro. Intorno a lui ci sono quattro, forse cinque persone. Alcuni accovacciati, altri appoggiati ai muri scrostati. Parlano poco. Lo ascoltano. La sua voce è calma ma piena, come un filo che li lega insieme. Sta raccontando.

Per un attimo resto fermo, bloccato. È un’immagine così distante da come l’ho sempre conosciuto, eppure qualcosa di familiare affiora, come un’eco dal passato.

Ricordo una sera, tanti anni fa. Avevo dieci anni, forse undici. Lui era seduto accanto al mio letto, con un vecchio libro sulle ginocchia. Non poteva leggerlo, non con gli occhi. Passava le dita sulla copertina, come se stesse toccando il mare di cui parlava.

«Le storie sono come il mare,» mi aveva detto. «Ti insegnano a navigare, anche quando non sai dove andare.»

Poi aveva iniziato a raccontare. Non leggeva, inventava. Mi parlava di mostri marini e di viaggiatori perduti, e io lo ascoltavo come se quelle parole fossero un’ancora. Mi aggrappavo a ogni sillaba, senza capire quanto mi sarebbero mancate.

Ora eccolo qui, lo stesso uomo, con la stessa voce, che non ha mai smesso di raccontare.

«E allora Ulisse ordinò ai suoi uomini di tapparsi le orecchie con la cera,» dice. «Si legò all’albero maestro, perché non cedesse al canto delle Sirene. Il mare era furioso, le onde scure come la notte. Ma loro continuarono a remare. Continuarono, perché la rotta era chiara e non si potevano fermare.»

Uno di quelli accovacciati si agita. Ha un volto scavato, gli occhi inquieti. «Ma che senso c’ha sta cosa?» chiede. «Perché nun se so fermati? Perché non ascoltavano le Sirene? Magari era bello, magari non succedeva niente.»

Mio padre sorride appena. «Le Sirene cantano la nostalgia, amico mio! Quello che hai lasciato. Se ascolti, smetti di andare avanti. Ti fermi. E quando ti fermi, il mare ti inghiotte.»

L’uomo scuote il capo, pensieroso. La sua mano stringe un pezzo di stoffa. «Io non ho più niente da lasciare,» mormora.

«Non è vero,» dice mio padre. «La vita è il viaggio. Non ti fermi fino alla fine.»

Un altro interviene, la voce roca e spezzata: «Ma che cazzo dici? Come fai a sapè tutte ste cose? Sei cieco, dove l’hai visto mai sto mare.»

Mio padre alza il viso verso di lui, gli occhi vuoti che non cercano più nulla da anni.

«Non serve vedere per conoscere il mare. Basta ascoltarlo. Io ascolto le storie che il mondo racconta. E le dico a voi, perché il mare non è solo acqua. Il mare è dentro di noi.»

Resta un silenzio sospeso, in cui si sente solo il tamburo della pioggia sui tetti. Osservo mio padre mentre riprende a parlare, raccontando del mare che si calma, della nave che si allontana dalle Sirene, di un orizzonte che si apre.

«Papà,» dico alla fine, interrompendolo. La mia voce suona estranea.

Lui si gira verso di me. Non sembra sorpreso. Sorride, un sorriso stanco ma vero.

«Sapevo che saresti venuto.»

«Devi tornare a casa,» gli dico.

«Casa?» ripete, quasi divertito. «La mia casa è qui, con loro. Sono le storie a tenerci insieme. Io ne ho ancora tante da raccontare.»

«Ma non puoi vivere così,» insisto. «Non è vita.»

Lui scuote la testa, lentamente. «Non è vita solo perché pensi che vivere significhi possedere, avere. Avere una casa, una macchina, un conto in banca… Io ho scelto di dare. Perché le storie, figlio mio, sono l’unica cosa che resta quando tutto il resto sparisce. Guardali. Sono qui, al buio, sotto la pioggia, ma ascoltano. Per loro il mondo esiste ancora, attraverso le mie parole. Le storie sono la loro speranza. Non li lasciano morire.»

Anche quando ero bambino, le sue parole erano il mio rifugio. Ora sono l’ancora di qualcun altro. E io non posso strappargliele.

Resto in silenzio, incapace di replicare. Capisco che non c’è niente che possa dire per convincerlo. Guardo quegli occhi attenti che seguono ogni parola. Il mondo, per loro, vive ancora in quei racconti. Mio padre ha ragione.

Mi alzo lentamente, la pioggia mi avvolge come un mantello. Cammino via, con le sue parole che continuano a riempire la notte. E lo capisco, senza bisogno di altro.

Questa è la sua strada, il luogo dove ha scelto di restare. Lo lascio lì, circondato dalle sue storie.

Mentre mi allontano, lo vedo piegarsi in avanti, il volto verso la pioggia, come se stesse cercando di ascoltare il mare in mezzo al caos della città. La sua voce si alza ancora, chiara e piena, come un faro che non si spegne.

Non mi volto indietro, ma porto via con me il suono della sua voce, come un filo che non si spezzerà mai.


Lascia un commento