Respiro fumo, non aria. La libertà è fuori da qui, lontana da questo posto che brucia. Non so se esiste un dopo, forse c’è solo questo fuoco.
La fornace divora il carbone, e noi con lui. Siamo piccoli ingranaggi dentro a una macchina enorme che non si ferma mai.
Le mie mani sono nere e dure, sembrano di legno. Non tremano più. Forse hanno dimenticato cosa vuol dire avere paura.
Il padrone sta là in fondo. Lo sento, non mi serve guardare. I suoi occhi seguono ogni movimento, calcolano ogni secchio di carbone. Vuole più fuoco, più fumo, più forza. Per lui non siamo persone, ma carburante. Ogni secchio che butto nella macchina è un pezzo di me che sparisce. La bestia ha fame, e io devo darle da mangiare. Lui è la sua voce, è l’ombra che sovrasta il fuoco.
Di notte sogno le colline verdi di casa mia, dove non c’è il rumore che spacca le orecchie e il fumo che graffia la gola. Ma ogni mattina mi sveglio qui, in questo posto che scotta e che non si spegne mai. Sembra che tutto dipenda da me, da quanto riesco a dar da mangiare a questa scatola di metallo.
Ogni goccia di sudore, ogni colpo del cuore è per lei, per la macchina. Eppure, non sono solo, siamo tanti. Ognuno con le sue mani nere e il respiro che si spezza.
Quando guardo il fumo che esce da qui, penso che non sia solo il mondo a dipendere da noi. Siamo noi a distruggerlo, un soffio nero alla volta. Anche fuori, quel fumo viaggia, copre tutto fino alle mie colline. Non è mai abbastanza. Bruciamo il mondo come bruciamo noi stessi.
Forse, un giorno, il fuoco finirà. Non ci sarà più carbone. Non ci saranno più schiavi, né padroni.
Ma fino a quel giorno, il combustibile sarò io.
