Il cane che piegava il tempo, aspettando la cena

Mi chiamo Chico, sono un cane e so tutto. So quando fingere indifferenza e quando scattare all’improvviso dietro una lucertola che mi passa troppo vicino.

So quando il sole raggiunge la finestra del soggiorno con la precisione di un orologio atomico e so che, se mi sdraio con la giusta angolazione, posso scaldarmi senza sembrare un fannullone.

Ma soprattutto, so che il tempo è un trucco.

Gli umani non se ne accorgono, poveretti. Corrono dietro alle loro ore, le spezzettano in appuntamenti, orari di lavoro, attese alla fermata dell’autobus. Li vedi guardare l’orologio e sospirare, come se quello scandire il tempo gli fosse imposto da una divinità ostile.

Io li osservo, sbadiglio e scodinzolo appena. Perché so che il tempo non è uguale per tutti.

D’altra parte, vivo con un tipo strano. Capelli arruffati, sempre immerso in pensieri che sembrano sfuggirgli dalle dita come fili di lana. Parla di tempo, di spazio, di cose che dovrebbero essere ferme ma che in realtà si muovono, di altre che sembrano andare dritte e che, invece, curvano.

Lui rincorre il tempo, lo scruta, lo misura, lo calcola.

Io lo ignoro. E vinco sempre.

Ogni mattina lo vedo infilarsi quel cappotto stropicciato, sempre con un bottone allentato e una macchia d’inchiostro sulla tasca, e uscire con una borsa piena di carte. So che va in un posto chiamato università, dove insegna e discute con altri umani come lui, quelli che parlano troppo e gesticolano in modo convulso.

A volte tornano a casa tutti insieme e restano fino a tardi, seduti intorno al tavolo del soggiorno a parlare di cose astruse che mi fanno socchiudere gli occhi per la noia. Si accalorano, si interrompono, si versano bicchieri su bicchieri di qualcosa che non è latte, e io, sdraiato ai piedi di Albert, li osservo con la superiorità di chi ha già capito tutto.

Spesso c’è anche un certo Michele, con un taccuino sempre in mano e il vizio di tamburellare le dita sul tavolo quando riflette troppo a lungo. Li guardo e mi chiedo: «Possibile che servano così tanti calcoli per capire qualcosa che io già so istintivamente?»

Vi faccio un esempio. Io mi addormento sempre sul suo cappotto che lascia incautamente sul divano. Quando riapro gli occhi, lo sento lamentarsi che il treno è in ritardo da quaranta minuti. Quaranta minuti? Mi sembra di essermi appena acciambellato e devo alzarmi perchè deve indossarlo!

Eppure, quando la ciotola resta vuota per dieci minuti dopo l’ora prevista, ogni secondo è un ago nella mia pazienza canina. Il tempo non scorre uguale. Dipende da cosa stai aspettando e da dove sei.

Un altro esempio? Quando mi apre il barattolo della carne sembra che il tempo si schiacci: dal momento in cui il coperchio fa clac a quando sento il sapore nella mia bocca, passano frazioni di secondo, un lampo, una dissolvenza.

Ma quando lui decide di ignorare il mio sguardo affamato e continua a fissare quelle pagine piene di segni indecifrabili, il tempo si gonfia, si allunga come una lingua di tappeto arrotolato. Ore. Giorni. Un’eternità.

E poi c’è questa sua ossessione per la velocità. Dice che più vai veloce, meno invecchi. Che il tempo si piega, si deforma.

Io lo guardo e penso che dev’essere vero, perché quando mi lancio in una corsa sfrenata dietro la pallina rossa di gomma, il mondo si sfoca, si riduce a un battito di ciglia. Per un istante, tutto è sospeso. Immobile. Forse il tempo mi sta facendo un favore e si ferma per me.

Gli umani si lamentano sempre del tempo che manca, di quello che è passato, di quello che devono incastrare nei loro impegni. Mai una volta che si fermino ad annusare l’aria, ad ascoltare il battito stesso della casa in cui vivono. Io invece lo faccio sempre. Ogni mattina ispeziono tutti gli angoli del giardino, ogni ciuffo d’erba, ogni odore portato dal vento.

Capisco più di loro, perché il tempo, per me, è una scia profumata che lascia tracce da seguire. Sembra che per loro l’adesso sia sempre un’ombra, mai qualcosa di duro su cui posare le zampe. Io invece vivo solo nel presente. Il passato è stato, il futuro non mi interessa.

E quelle pagine che Albert scruta ossessivamente, piene di segni strani e frecce che curvano? Credo voglia spiegare quello che io so già. Il tempo non è rigido, non è uguale per tutti, non segue una linea dritta. Io lo piego a mio piacimento, lui invece cerca di metterlo in ordine.

Chissà se un giorno lo capirà.

Mi stiracchio, sbadiglio con soddisfazione, lo osservo che impreca alla sveglia e scendo dal divano con la grazia di chi non ha mai avuto bisogno di un calendario. Il tempo, dopo tutto, è solo una sciocchezza da bipedi ansiosi.

Io ho fame. E questo è l’unico istante che conta.


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