Napoli, di notte, è un’altra cosa. La gente si chiude in casa, il traffico si spegne, restano solo i vicoli stretti e il rumore dei miei passi che si mescola a quello del camion della monnezza. L’aria sa di umido e di vecchio, quell’odore di città che ha vissuto troppo e riposa male.

Ma è proprio allora che si capisce chi siamo davvero, da quello che buttiamo via.

«Rafè, ‘a munnezza nun dice bucie», ripeteva sempre la buonanima di mio padre, monnezzaro pure lui, «puoi fare il signore, vestire bene, parlare istruito, ma quello che butti racconta sempre la verità su di te.»

Aveva ragione papà.

Se guardate bene nei sacchi, nei cassonetti, nei mucchi che lasciamo fuori ogni sera, c’è tutto. C’è chi si può permettere di buttare cose ancora buone, perché può comprare il nuovo senza pensarci troppo. E c’è chi non ha niente e prova a riparare perché sa che certi oggetti si pagano col sudore.

E io, ogni notte, quando facciamo il giro, ci trovo dentro pezzi di vita.

C’è chi butta i ricordi di un amore finito. Peluche, lettere, fotografie strappate come se bastasse buttarle per cancellare il passato. Oppure, chi svuota la vita di qualcun altro. Mobili di una casa ormai vuota, le scarpe di un vecchio che non cammina più, piatti scardati che fino a ieri servivano pranzi e cene di famiglia.

E poi c’è chi butta e ricomincia. I libri dell’università di chi finalmente si è laureato e ha fatto felici mammà e papà, i vestiti troppo stretti di chi si è ingrassato, i vecchi calendari che non servono più a segnare il tempo di una vita che è andata avanti.

L’altra sera ero al lavoro, come sempre. Il collega bestemmiava sottovoce, seguendo tutto il calendario, perché qualcuno aveva lasciato i sacchi sfondati e un fiume di percolato scendeva verso i tombini.

Stavo per attaccare un cassonetto quando qualcosa mi cade davanti ai piedi. Piccolo, rotondo, la plastica graffiata e la faccia mezza cancellata. L’ho riconosciuto subito.

Era il mio Super Santos.

Non un Super Santos qualsiasi. Il mio. Quello che mia madre, vent’anni fa, mi aveva sequestrato perché con una pallonata avevo sfondato la vetrina di Don Alfonso il salumiere.

E mo’? Era tornato.

L’ho preso in mano e ho sentito una scossa. Come se quella plastica sporca conservasse ancora tutti i tiri, le mazzate, le corse nel campetto della parrocchia. Quel pallone ne aveva viste di tutti i colori. Mille partite per strada in mezzo alle macchine e le acrobazie per evitare che finisse sul balcone di don Vincenzo, che faceva la guardia notturna e ogni volta ce li bucava perché lo svegliavamo mentre dormiva.

E adesso stava in un cassonetto. Ma non era morto. Non era sparito nel nulla. Dopo vent’anni, stava ancora qua.

E lì mi è scattato un pensiero.

L’energia nun se perde mai.

Pensate a quanta fatica c’è voluta per fare ‘stu pallone. La gente che l’ha gonfiato, impacchettato, caricato su un camion che l’ha portato al negozio. E poi io, coi soldi della pensione di mia nonna, l’ho comprato e ci ho corso dietro per anni. E mo’? Era finito nella spazzatura.

«Ma davvero era finito? Che faccio? Lo salvo?» ho pensato.

Mentre tenevo il pallone far le mani, il collega si avvicina.

«Che fai? Parli co’ ‘a munnezza?»

Mi sveglio, scuoto la testa. E senza rendermene conto, con il gesto automatico di chi lavora da anni, lancio il Super Santos nel compattatore.

Un attimo di silenzio. Poi, la macchina lo inghiotte senza pietà.

Resto lì, con la mano a mezz’aria.

Mi viene da ridere.

E alla fine dico sottovoce, quasi a me stesso:

«Tanto, si adda turnà, torna».


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