Sono nato con un difetto. Un errore di stampa, come quelli nei libri usati che mia madre compra sempre al mercatino. A pagina tre già si capiva che qualcosa non tornava. Ma invece di chiudere il libro, hanno iniziato a studiarlo.
All’inizio ero un caso interessante. Poi un paziente. Adesso sono la ruota di un ingranaggio.
Venticinque persone lavorano su di me. Lo so perché le ho contate. Insegnanti, terapisti, dottori, psicologi, assistenti sociali, educatori… Io manco ci arrivo a venticinque follower su Instagram.
Eppure, nessuno mi chiede mai: «Ti va?»
Mi chiedono: «Come ti senti da uno a dieci?», come se le emozioni si misurassero in centimetri.
Ogni tre mesi fanno una riunione tutti insieme per parlare di me. Si chiama Progetto di Vita. Io non ci vado mai. Mi viene l’orticaria quando sento la parola progetto.
Mica sono un ponte, io.
Dicono che devo essere preso in carico. Ma a me, più che preso, mi pare di essere trasportato. Di stanza in stanza. Di operatore in operatore. Di foglio in foglio.
A volte mi viene da ridere. Mi trattano come se fossi fragile e poi si servono di me per far girare mezza baracca. Il mio bisogno è il loro mestiere. Il mio disagio è la loro carriera. Il mio silenzio è il loro report.
Ma io non sono il protagonista del vostro PowerPoint. Non sono un caso da aggiornare. Non sono una storia a lieto fine.
Ho quasi quindici anni. Mi piacciono i video cretini, le battute sceme, il pane con la Nutella. Mi piace dormire. Sognare. Pensare.
E mi piacerebbe, ogni tanto, che qualcuno bussasse prima di entrare. Non intendo in camera mia, che i miei genitori e mio fratello già lo fanno. Intendo nella mia testa.
Ogni tanto, vorrei che qualcuno mi chiedesse cosa voglio davvero. Senza analizzarmi. Senza aggiustarmi. Senza pianificarmi.
Non sono un ponte. Non sono un obiettivo. Non sono una storia da raccontare ad un convegno.
Sono un ragazzo. Con un errore di stampa, sì. Ma il libro è mio.
E se vi fermate un attimo a leggere, magari scoprirete che alcune pagine… sono bellissime.
