Non ricordo il nome della casa. Ricordo il cigolio della porta, però. Si aprì piano, come si fa con certe notizie, con rispetto.
Lei era lì. Non piangeva. Nei suoi occhi c’era qualcosa di più antico del pianto. Una resa quieta, come chi ha finito le parole e aspetta.
Io entro sempre con le tasche piene di sapere e il cuore vuoto, così da non farlo pesare su chi soffre. Ma quel giorno fu diverso. Il cuore mi inciampò in gola. Le dissi poco. Non serviva molto. Le parole, in certi momenti, sono come i farmaci. Troppe fanno danno.
«Lo sveglierà?» mi chiese.
«No,» risposi. «Ma posso stare con voi.»
Lei annuì.
E fu allora che cominciò la cura. Non la mia, la sua. Iniziò a parlare. Non del padre che stava morendo, ma del padre che aveva vissuto. Mi raccontò delle mani che impastavano pane e fatica, di come cantava stonato quando la portava in braccio, di quando le insegnava a guardare le nuvole e riconoscerci dentro le stagioni.
Io ascoltavo. Non per scrivere una cartella, ma per non dimenticare. Perché ogni corpo ha una storia e ogni storia chiede ascolto prima di una diagnosi.
Il padre respirava a piccoli sorsi. Un ritmo che non voleva disturbare nessuno. Ogni tanto un sospiro, come se stesse lasciando andare qualcosa, piano.
Io restai. Perché, a volte, curare è solo questo. Restare. Sedersi su una sedia che scricchiola, tenere il silenzio come si tiene la mano di un paziente. Senza stringere, ma senza lasciarla.
Quando uscii, la luce era calata. Sul mio taccuino nessuna prescrizione, solo una frase: Le storie sono già cura. Basta ascoltarle.
Non sempre guarisco. Ma, ogni tanto, accadono guarigioni che la scienza non sa misurare. Una figlia che trova voce. Un padre che muore con accanto chi gli ha voluto bene. Un medico che ricorda perché ha scelto questa strada.
La medicina, quella vera, è fatta anche di voci spezzate, di sedie che scricchiolano, di silenzi che dicono tutto. E quando tornerò, forse lui non ci sarà più. Ma lei sì.
E porterà dentro il ricordo di un medico che non ha salvato, ma ha saputo restare.
