Qualche anno fa avevo comprato all’Ikea una torre d’avorio da montare, ma poi l’avevo lasciata in cantina.
Era una scatola lunga, stretta, col disegno essenziale sul cartone: la torre, in tre moduli impilabili, con scala interna e oblò panoramico. Per pensatori stanchi, recitava lo slogan incollato sulla confezione. L’avevo presa in un pomeriggio incerto, più per gioco che per convinzione, come si prende una moka da sei quando si vive da solo.
Poi l’avevo dimenticata.
Ci ripensai un mattino in cui tutto sembrava troppo. La televisione parlava con la voce gonfia, come se gridare fosse l’unico modo per farsi ascoltare. Parlava di confini, di purezza, di nemici interni. Il vicino aveva appeso una bandiera nuova e sotto ci aveva scritto: «Io sono la gente». Ma io, quella gente, non la conoscevo.
Così scesi in cantina. La torre era ancora lì, muta, fedele. Decisi che era ora di montarla. Non per fuggire, ma per salire. Guardare da sopra, da lontano, come si fa con i puzzle quando non tornano i pezzi.
Non c’era eroismo: solo bisogno di altezza. La volevo costruire per vedere il mondo senza che mi ci sputassero addosso i pensieri degli altri.
Mi servivano due giorni. Tre, con le pause. Quando fu finita, ci salii con una sedia pieghevole, un thermos di caffè e un quaderno.
Da lì vedevo tutto: i tetti, le antenne, le scritte sui muri. La rabbia che camminava per strada sembrava più piccola, quasi buffa. I proclami diventavano fruscii e la paura, vista dall’alto, sembrava una macchia d’umido sul marciapiede.
Non mi sentivo al sicuro.
Ma mi sentivo vero.
