Mi sono posato su quel comignolo perché fumava. E dove c’è fumo, di solito c’è qualcosa da mangiare. Non pensavo di finire in mondovisione, giuro.
Là sotto, dentro quella grande scatola di pietra, c’erano uomini vestiti di bianco, nero e rosso, come uno stormo di piccioni che hanno sbagliato il programma della lavatrice.
Bruciavano carta. E non per scaldarsi. Per scegliere uno fra loro che potesse parlare a nome di colui che, ripetevano, era più in alto di tutti.
Mi sono dato un occhiata intorno, ma non ho visto nessuno che fosse più in alto di me.
Per un paio di volte dal tubo è salito fumo nero. Gli umani lo guardavano come se aspettassero la pioggia dopo mesi di siccità.
Io me ne stavo lì, sopra tutto e tutti, ad ascoltare quel che potevo. Le voci salivano con la corrente calda. Alcuni pregavano, altri discutevano, altri ancora si mettevano d’accordo.
Il tono era serio ma, a orecchio, sembrava una lite tra gabbiani al parco per una patatina.
Poi, a un certo punto, il fumo è cambiato. Bianco. La folla è esplosa. Hanno urlato, pianto, applaudito. Tutto per un nome.
Io, sinceramente, avrei votato per quello con la faccia da pescatore, almeno sapeva dove trovare i vermi.
E mentre la gente si stringeva nella piazza con le colonne, io me ne stavo ancora lì, con le zampe calde e lo stomaco vuoto, a chiedermi: “Ma davvero vi serve tutto questo per trovare un uomo vestito di bianco che vi dica di voler bene al prossimo?”
Io, se voglio bene a qualcuno, gli porto un pesce. Non gli faccio bruciare tre chili di schede.
Poi ho aperto le ali. Non per solennità. Era tardi, e avevo fame.
