Mi chiamo Nilo, come il fiume. Papà dice che è un nome da scorrere dritto, senza pieghe. Dice che nessuna corrente può curvarmi.
Papà dice anche che la Terra è piatta.
E io ci ho creduto, fino a un certo punto. Per affetto, per abitudine. Per quel silenzio che si crea quando vuoi bene a qualcuno, anche se dice cose storte.
Papà guarda i video dove degli uomini in giacca urlano nei microfoni come trombe del giudizio, sputando verità e dentifricio. Dicono che lo spazio non esiste. Che le foto delle galassie sono fatte con Photoshop. Che Galileo era un buffone al soldo dei gesuiti.
Papà annuisce, con la bocca piena di cena e stanchezza. A tavola, la gravità non c’è. Ma il peso delle parole sì. Soprattutto quelle che restano lì, tra una forchettata e la pubblicità.
Un giorno, la maestra è arrivata in classe con una bacchetta di legno.
L’ha infilata in un vaso di sabbia come se fosse un’antenna per parlare col passato.
“Guardate l’ombra,” ha detto. “Lo faceva anche Eratostene, più di duemila anni fa.”
Come se Eratostene fosse stato suo zio che vende le arance al mercato.
Poi ci ha dato il compito: “Misurate l’ombra a mezzogiorno. E scrivete cosa scoprite.”
Io ho alzato la mano:
“Mio papà dice che la Terra è piatta.”
Lei ha fatto un sorriso sottile.
“Falla lo stesso, Nilo,” mi ha risposto. “Non per me. Per te.”
A casa ho trovato un manico di scopa. Spelacchiato, con una scheggia che pungeva la mano.
L’ho piantato nel cortile, dritto come un pensiero testardo.
Poi ho chiamato Luisa, la mia cugina di Agrigento.
“Misura anche tu l’ombra, alla stessa ora,” le ho detto.
Lei: “Ma sei scemo?”
Io: “Sì. Ma fallo lo stesso.”
Il giorno dopo, a mezzogiorno spaccato, ho misurato. Ventiquattro centimetri, la mia.
Dieci, la sua.
Ho fatto i conti come ci ha insegnato la maestra, con angoli, cerchi, radici quadrate che sembrano insetti sui fogli a quadretti
Differenza tra le ombre. Distanza tra me e Luisa. Proporzioni. È uscito un numero vicino a quarantamila. Il giro della Terra.
Ho controllato. Due volte. Tre. Non capivo tutto, ma capivo abbastanza.
Eratostene non aveva Google, né droni, né PowerPoint.
Solo due bastoni, due città, e un cervello che non prendeva ordini da YouTube.
Ho raccontato tutto a papà. Lui ha fatto una risata un po’ stanca, con le mani ancora sporche di lavoro.
“Bravo. Adesso sai fare i conti come i bugiardi.”
“Papà, non sono bugie. L’ho visto io.”
“Hai visto un’ombra. E ci hai visto dentro quello che volevi. Come fanno tutti.”
Poi ha aggiunto, più piano: “Anche io, una volta, guardavo le stelle. Ma non mi rispondevano.”
Ha acceso un video. Un uomo in giacca spiegava che Eratostene non è mai esistito.
Che il Sole è vicino. Che i bastoni sono inutili, come i termometri. L’ho lasciato lì, immerso nella sua luce blu.
Sono uscito nel cortile. Il manico era ancora lì, testimone silenzioso. L’ombra se n’era andata. Il cielo era vuoto come un foglio pulito. La curva della Terra non si vede. Ma si sente. Sotto i piedi. Nella pancia. In quel modo in cui le cose vere non hanno bisogno di prove ogni giorno.
A scuola ho portato il quaderno pieno di numeri e disegni. La maestra mi ha chiesto se volevo esporre.
Ho detto: “No.” E lei non ha chiesto perché. Forse lo sapeva.
Papà e io non litighiamo. Non parliamo. Facciamo finta che la Terra sia una tavola.
A volte mi guarda mentre sparecchio. A volte mi guarda e basta. Poi cambia canale.
Ogni tanto salgo sulla collina vicino casa. Guardo il mare. Lo vedo sparire laggiù, come se scappasse da qualcosa. E penso: magari ha ragione lui.
Poi scendo. Il manico di scopa è ancora lì, nel cortile. Dritto. Solo. Non dice niente.
Come me.
