Lo trovo mentre cerco il compressore nel box. Sta lì da sempre, appeso a un chiodo, mezzo coperto da un telo pieno di polvere. Un boomerang, legno chiaro, bordo consumato. Lo avevo comprato a vent’anni, quando credevo che tutto tornasse, anche le idee. Lo prendo in mano. Pesa meno di quanto ricordassi.

Fuori c’è un po’ di vento, il tipo di vento che i telegiornali dell’Ottantasei ci dicevano di temere perché portava la nube. Chernobyl, avevo quattordici anni. Ricordo mia madre che bolliva l’acqua tre volte e poi la buttava, «non si sa mai».

Mio padre rideva, ma beveva birra in lattina per prudenza.

Io avevo paura del cielo. La paura è così. Non ha un punto preciso, si allarga come una macchia di caffè.

Nel box, sopra il banco da lavoro, c’è ancora il ritaglio del giornale di quel referendum. Mamma e papà votarono contro. Dicevano che il nucleare era troppo pericoloso e che tanto «ci penseranno altri Paesi a sbagliare per noi».

Il figlio del vicino, invece, era appena entrato all’ENEA: «Almeno qualcuno ci studia seriamente», disse mio padre, ma a bassa voce.

L’ anno dopo, quel ragazzo partì per l’estero.  «Lì continuano a investire», disse, quasi scusandosi.

Lo lancio, tanto per vedere se vola ancora. Il boomerang fa un giro goffo e torna a terra con un colpo sordo. Mi viene da ridere. Anche le convinzioni, certe volte, fanno così. Partono sicure e poi si schiantano vicino a dove sono partite.

A pranzo, Giulia dell’ufficio mi racconta che sua madre ha finito la radioterapia. «Sta bene, per fortuna.»

Annuisco, sincero. Poi, senza pensarci, dico: «Strano, essere curati col nucleare.»

Lei mi guarda, alza le sopracciglia. «Strano è morire se non lo usi.»

Rido, ma lei non ride. È un riso nervoso, quasi isterico, che si spegne subito. Mi resta in gola quello strano. La sera provo a cancellarlo con qualche bicchiere di rosso, ma non basta. Forse perché quando hai paura, la logica non serve a niente e neanche la buona educazione.

Penso alle due TAC che ho fatto per la schiena, e alla scintigrafia di mio fratello. Mi sono fatto attraversare dalle stesse radiazioni che ho sempre temuto e non ho detto una parola.

Quando torno a casa, rilancio il boomerang. Stavolta vola storto, si ferma nell’erba alta. Resto a guardarlo come si guarda una cosa che non si capisce più.

Mio figlio Pietro, ha ventitré anni e studia archeologia. Dice che data i reperti con il carbonio 14. Un giorno mi mostra una foto. Un vaso rotto e sotto una scritta con numeri e decimali.

«Senza decadimento radioattivo, papà, non sapremmo quando siamo nati come civiltà.»

Io scuoto la testa. «Alla mia età facevo cortei contro il nucleare.»

«Pensa tu,» dice.  Mi ride in faccia, ma con affetto. Io fingo di offendermi, ma dentro mi fa piacere.

Quando ci fu il secondo referendum, quello del Duemilaundici, andai a votare anch’io. Non con l’entusiasmo di allora, ma con un dubbio nuovo. Mi sembrava di votare più contro la paura che contro le centrali.

Nel pomeriggio rilancio il boomerang. Prende un’aria larga, fa due giri prima di tornare. Quasi come se riflettesse anche lui. Poi resta lì, sull’erba, e non lo raccolgo subito. Mi piace l’idea che resti a metà strada, indeciso. Non tutto deve tornare subito.

Un sabato piove. Leggo un articolo sulle nuove mini-centrali modulari. Il ministro dice che saranno più sicure. Mi viene da pensare che non siano cose per domani mattina, e questa attesa mi mette a disagio.

Forse è solo la vecchia paura che torna, quella di affidarsi a qualcosa che non si conosce davvero. Avevamo poster contro le centrali, ma nessuno sapeva dove fossero. Bastava una nube disegnata a pennarello per sentirci in lotta.

Penso a quando credevo che il nucleare fosse solo potere, controllo, eserciti, segreti. Forse avevo paura più di quello, che non dell’atomo in sé. La paura come ideologia. Invisibile e colpevole. Oggi invece abbiamo nemici visibili e li ignoriamo.

Chiudo il giornale e vado in giardino. L’ aria sa di terra bagnata e metallo. Lancio il boomerang. Il vento cambia e quello mi sfiora la spalla, leggero. Non fa male, ma lo sento. Mi viene da pensare a quante volte la paura ci tocca così, senza colpirci davvero.

L’ultima volta lo lancio al tramonto. Il cielo è chiaro, il campo vuoto. Penso alle scorie. Quelle che restano sottoterra per millenni e quelle che mi porto dentro da decenni. Entrambe difficili da smaltire.

Il boomerang scompare dietro il muro. Aspetto. Passano secondi, forse minuti. Non torna. Mi viene da pensare che sia giusto così. Non tutto deve tornare.

Quando rientro, lo vedo di nuovo a terra, sporco di fango, con una scheggiatura nuova. Lo raccolgo, lo pulisco con la manica della camicia. È leggero, ma non fragile. Come la paura, quando smette di comandare.

Lo rimetto sul chiodo, senza più intenzioni. Da qualche parte, lontano, sento un ronzio sottile. Forse è solo il frigorifero.

O forse il mondo, per un attimo, si è ricordato di funzionare.

Poi smette.


Lascia un commento