Il confessionale di Don Luigi non era mai stato un luogo di grandi sorprese. Ogni settimana si ripresentavano gli stessi peccatori, con peccati ripetuti come preghiere e scuse che ormai sembravano imparate a memoria.

Don Luigi, però, non si annoiava. Al contrario, li conosceva così bene che poteva prevederne parole e pensieri come fossero versetti di un messale consunto.

Si sistemò la stola verde con un gesto deciso, più teatrale che liturgico, come un attore che si prepara alla scena madre e lanciò un’occhiata all’inginocchiatoio dall’altra parte della grata.

Il legno scricchiolò sotto il peso di Domenico.

L’uomo era un monumento all’umanità imperfetta: basso, un po’ curvo, con capelli bianchi che spuntavano come fili d’erba su una testa lucida. Aveva un viso da patriarca stanco, il tipo di uomo che ti dà lezioni di vita anche quando non le vuoi. Ogni movimento era impregnato di gravità, come se ogni gesto servisse a bilanciare un universo disordinato.

Si inginocchiò con lentezza cerimoniale, sistemandosi il cappello tra le mani con la stessa meticolosità che avrebbe riservato a un calice di vino buono. Gli occhi grigi, un po’ acquosi, trasmettevano una solennità che si spezzava non appena apriva bocca.

«Perdonatemi, padre, perché ho peccato.»

Don Luigi trattenne un sorriso. Conosceva Domenico come conosceva la sua chiesa: ogni crepa, ogni scricchiolio, ogni vizio.

«Va bene, Domenico, ma lasciami indovinare. Oggi è giovedì, ieri c’erano le partite di coppa e tu avrai bestemmiato contro il televisore con il digitale terrestre perché si è bloccata la partita. Ho ragione?»

L’altro alzò lo sguardo, incredulo. «Uà don Luì e come avete fatto? Voi vi dovete mettere a leggere le carte in televisione. Ma vi giuro: è stato un momento di rabbia! Il Napoli stava vincendo, poi è saltata la corrente e…»

«Va bene, Domenico. Dio perdona anche i tifosi frustrati. Ma dimmi una cosa: la televisione dove la tenete attaccata?»

Il vecchio sbarrò gli occhi. Aveva quella particolare capacità di trasformare ogni sorpresa in indignazione.

«La televisione? Don Luì, ma che state dicendo? Io sono venuto a confessare peccati veri! Che c’entra la presa della TV con il mio peccato? Voi siete sicuro che state seguendo le istruzioni del Vaticano?»

Don Luigi inclinò la testa con aria severa, come un maestro che si prepara a spiegare una lezione elementare per la centesima volta.

«C’entra eccome e poi lo so io come si fa una confessione. Ogni volta che spegni la TV rimane in standby e sprechi corrente. E Dio detesta lo spreco, caro mio. Per penitenza,» sentenziò, «vai a casa e controlla. E già che ci sei pianta un albero nel giardino della canonica. Entro stasera. Non discutere.»

Domenico si passò una mano sulla fronte, come se gli avessero appena chiesto di costruire l’arca di Noè.

«Un albero? Padre, io tengo settantotto anni! Piantare alberi non è pericoloso?»

Don Luigi lo fissò, implacabile. «Solo se non li innaffi.»

Quando l’uomo uscì dal confessionale, camminava a passi lenti, scuotendo la testa e parlando tra sé. «Questi preti moderni… ma dove lo trovo un albero a quest’ora? E poi, chi lo deve pagare, io o la parrocchia?»

La prossima era Maria, una donna minuta con l’energia di un generale e la lingua affilata di un sarto che non sbaglia mai una cucitura. Maria entrava in chiesa come se dovesse fare un’ispezione, osservando ogni dettaglio con occhi che sembravano nati per criticare.

Nella vita di tutti i giorni, era capace di mettere in riga marito, figli e persino il cane, ma nel confessionale si trasformava in una figura tragica, come una martire in cerca del proprio altarino.

Si inginocchiò con un gesto studiato, quasi teatrale.

«Padre, ieri ho litigato con mio marito. Mentre eravamo a cena, gli ho detto che è inutile come una forchetta nel brodo.»

Don Luigi sollevò lo sguardo con aria rassegnata. «Maria, ormai lo sappiamo tutti che maltrattare tuo marito è il tuo sport preferito. Dimmi una cosa, la luce era accesa quando gli lo hai fatto martire?»

Maria lo guardò con l’aria di chi teme un colpo basso. «Certo Don Luì e che mangiamo al buio?»

«E che lampadine c’avete? A LED ? » disse il sacerdote

«Scusate, ma cosa c’entrerebbero le lampadine con il mio peccato?» rispose Maria.

«C’entrano eccome. Ogni lampadina vecchia che lasci accesa è uno spreco. E lo spreco, Maria, è una mancanza di rispetto per il creato. Ora, vai a casa, cambia almeno tre lampadine e abbassa il termostato di due gradi.»

Maria sbuffò, incrociando le braccia come se fosse pronta a contrattare.

«Padre, mio marito dice che con due gradi in meno ci vuole la coperta.»

Don Luigi, implacabile. «E allora compragli una bella coperta nuova. Gliela metti in un pacchetto con un bel fiocco e gliela regali. Così fate pace e risparmiate pure.»

Maria si alzò con la grazia di chi porta ancora sulle spalle il peso del proprio martirio. Mentre usciva, scuoteva la testa, borbottando a bassa voce: «A saperlo mi andavo a confessare da Alfonso del ferramenta, così le lampadine me le trovavo già comprate.

Don Luigi si appoggiò allo schienale del confessionale, lasciando che il silenzio lo avvolgesse. Gli capitava spesso, in quei momenti di tregua, di tornare con la mente a quel giorno al negozio di alimentari, quando tutto era cambiato.

Visiano Soprammonte era l’esatto opposto di Roma, dove aveva trascorso gli ultimi dieci anni. Roma era un mosaico caotico: traffico, luci, voci che si accavallavano. La capitale del tutto e del niente. Visiano, invece, sembrava uscito male da un fermo immagine: un paese dove il tempo si era fermato… e si era rotto.

Le case erano basse, tutte uguali, con l’intonaco screpolato che ricordava un sorriso senza denti. Gli orologi smettevano di funzionare senza che nessuno ci facesse caso, e il campanile suonava le ore solo quando si ricordava. Nessuno si stupiva. Qui la memoria aveva un valore relativo.

Don Luigi ricordava ancora il giorno in cui aveva ricevuto la lettera del trasferimento. Seduto al tavolino della sua cucina romana, accanto a un poster di Papa Francesco che sorrideva con benevolenza, aveva aperto la busta con mani tremanti. Era il richiamo alla sua terra natale.

«Finalmente,» aveva pensato, «porterò il messaggio della Laudato Si’ tra la mia gente. »

Quell’enciclica era stata il suo faro. Quante volte l’aveva letta, sottolineata, riletta, come si fa con le parole di un amore eterno. Il creato, la cura della terra, il richiamo a una spiritualità concreta: tutto gli era sembrato un mandato chiaro, urgente.

Poi era arrivato a Visiano e la realtà lo aveva colpito con la delicatezza di una secchiata d’acqua gelata. Qui non c’erano slanci poetici, né spazio per sogni di sostenibilità. La gente si preoccupava di cose tangibili: arrivare a fine mese, raccogliere le olive prima della pioggia, trovare parcheggio vicino alla chiesa la domenica. Un peccato contro il creato? Dimenticare l’olio nuovo al sole o lasciare il trattore davanti alla casa del vicino.

Alla sua prima messa, aveva guardato i parrocchiani uscire con calma, chiacchierando di potature e taralli.

«Francesco mio, qui non c’è speranza,» si era detto. Ma Don Luigi non era tipo da arrendersi. Provò con prediche accorate, poi con volantini dai colori sgargianti, infine con un seminario dal titolo Visiano per un futuro sostenibile. Niente. Neanche una scintilla.

Ma quel giorno al negozio di alimentari era stato diverso. Aspettava in fila, tenendo una busta di mele come se fosse l’ultima cosa certa nella sua vita. Davanti a lui, Domenico, Peppino e Saverio gesticolavano come se stessero dirigendo un’orchestra invisibile. La discussione era un crescendo di indignazione.

«Sapete quanto spreco c’è in questo paese?» tuonava Domenico, con un sacchetto di farina in mano. «L’acquedotto perde acqua da tutte le parti. È un peccato, un vero peccato!»

Peppino, che indossava sempre una salopette e un’espressione da tecnico improvvisato, annuì con vigore. «E la corrente? I giovani lasciano accese le luci a ogni ora. Pare che la bolletta la paghi sempre qualcun altro!»

Saverio, il più anziano, aveva un talento naturale per chiudere ogni discorso ripetendo le ultime parole pronunciate. «Qualcun altro!» aggiunse, puntando il dito. «E la spazzatura? Bottiglie dappertutto. Ma tanto chi se ne frega. Come si dice? Chi campa di speranza, disperato muore.»

Don Luigi li ascoltava in silenzio, con un misto di incredulità e curiosità. Quelle parole – peccato, un vero peccato – gli rimbombavano nella testa. Questi uomini sembravano profeti improvvisati, con un copione sbilenco e un pubblico distratto. Eppure, tra quelle frasi sgangherate, c’era una verità.

I suoi parrocchiani si confessavano per tutto: una parola di troppo, una bugia, un pensiero impuro. Ma mai nessuno aveva chiesto perdono per aver lasciato una luce accesa o per aver buttato una bottiglia nel fosso. Eppure, che cos’erano quegli sprechi, se non un’offesa al creato?

Dio ama l’ordine, non il caos, pensava Don Luigi, ripetendo a sé stesso una frase letta e sottolineata più volte nella Laudato Si’. Ma come far arrivare quel messaggio a gente che considerava l’ecologia una parola inutile, come il latino delle epigrafi? Prediche, volantini, seminari: tutto inutile.

Poi, mentre Saverio chiudeva l’ennesima massima, arrivò il lampo. Non sarebbe più stato Don Luigi a parlare. Avrebbe lasciato che lo facesse la penitenza. Confessione ecologica, mormorò tra sé. Un’idea folle, forse. Ma a volte i miracoli nascono proprio dalla follia.

Mentre tornava a casa con le mele, un sorriso ironico gli illuminava il volto. Domenica, tutto sarebbe cambiato. Anche a Visiano Soprammonte.

Don Luigi aveva appena finito di sistemarsi la stola quando sentì l’ormai familiare scricchiolio dell’inginocchiatoio. Non aveva bisogno di guardare: solo Domenico si muoveva con quella lentezza teatrale, come se ogni passo fosse un sacrificio per il Signore.

«Padre, sono tornato.»

Don Luigi incrociò le braccia, appoggiandosi al legno con l’aria di chi ha già capito tutto.

«Ancora qui stai, Domé? Non pensavo di rivederti così presto.»

«Padre, ho bestemmiato contro il rubinetto.»

Don Luigi sollevò un sopracciglio. «Contro il rubinetto?»

«Sì, padre. Gocciola, gocciola, gocciola… Non si ferma mai. Mi è salito un nervoso che non vi dico. Alla fine, ho detto una cosa brutta.»

Il sacerdote inspirò profondamente, cercando di trattenere una risata.

«Domenico, Dio ti perdona le bestemmie, ma non sono sicuro che ti perdoni lo spreco d’acqua.»

«Padre, ma io che posso fare? Non è colpa mia se gocciola!»

«Hai provato a stringerlo?» chiese, con il tono di chi spiega l’ovvio.

«L’ho stretto, padre! L’ho stretto così tanto che mi sono fatto venire un callo in mezzo alla mano!»

Don Luigi scosse la testa, come un maestro davanti a un allievo senza speranza.

«Il rubinetto gocciola e tu lo lasci lì, a fare spreco? Sai quanta acqua si perde in un giorno? Lo sai che potresti riempirci una vasca per i pesci?»

«Eh, ma io i pesci non li tengo!» replicò Domenico.

«E allora la vasca te la riempi per immergerti nei tuoi peccati,» ribatté Don Luigi. «Ascolta, Domenico: questa è la tua penitenza. Vai in sacrestia, nel terzo cassetto ci sono le guarnizioni. Ne prendi una e ci ripari quel rubinetto. Entro domani. E ricordati: il Signore ama chi risolve, non chi si lamenta.»

«Ma padre, io sono venuto qui per farmi perdonare, non per diventare un idraulico!» protestò Domenico.

«E io sono qui per salvare le anime…e l’ambiente. Adesso vai e non discutere.»

Don Luigi si appoggiò allo schienale del confessionale, lasciando che il silenzio lo abbracciasse per un istante. Oltre la grata, c’era una fila di parrocchiani che aspettavano, ognuno con il proprio peccato piccolo e imperfetto, come sempre. Sistemò la stola, il gesto quasi automatico, ma il pensiero già rivolto al prossimo.

Guardò la luce che filtrava dalla finestra sopra l’altare. Non era brillante, ma faceva il suo dovere, proprio come lui.

«Forse non è molto,» mormorò, «ma il creato si salva anche così.

Un peccato, una penitenza, un albero alla volta.»


Una replica a “Il confessionale verde”

  1. Avatar Raffaele
    Raffaele

    Racconto stupendo, cosi come lo è l’autore che non finisce mai di stuprci e ci dona tanta energia. TUTTI VISIANO.

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