Mi sveglio alle 6:48. Non per scelta, ma perché il mio cervello ha un allarme interno sincronizzato con l’esatto momento in cui il sole bacia la tenda con un angolo di diciassette gradi. L’ho misurato. Tre volte.
Oggi devo essere normale.
Apro il cassetto delle espressioni facciali. Ne scelgo una neutra, con un accenno di sorriso, tipo mi fa piacere vederti ma non troppo. La sistemo sul viso. Mi guarda strana, dallo specchio. Forse è al contrario.
Alle 7:02 faccio colazione con il mio amico immaginario, che non è immaginario per me ma lo è per il condominio in cui abito. Lui dice che oggi andrà tutto bene. Lui mente spesso, ma con molto garbo.
Alle 7:49 esco di casa. Indosso il cappotto con i bottoni dispari, perché i pari mi fanno sentire sbilanciato. Le persone normali non sembrano accorgersi dei bottoni sbagliati. Le invidio un po’. O forse le compatisco. Dipende dall’umidità.
Sul tram c’è troppa gente. La signora accanto a me ha una borsa che odora di panino al tonno e rimpianti. Un bambino mi fissa come se avessi le antenne. Magari le ho davvero, ma non si vedono quando porto il cappello. Scendo una fermata prima. Per respirare.
Alla macchina del caffè in ufficio, provo a dire qualcosa di normale. Tipo: «Che tempo, eh?»
Il collega mi guarda come se avessi appena detto: «La luna è un’arancia depressa.»
Forse non ho usato il tono giusto. Forse non era la frase del giorno.
Alle 10:17 vengo convocato dalla capa. Dice che dovrei socializzare di più, magari unirmi ai pranzi.
Rispondo che mi unirei volentieri se potessi clonarmi, ma che il mio doppio è ancora in beta.
Lei ride. Io no. Era una cosa seria.
Alle 13:00 vado in pausa pranzo. Non mangio con i colleghi. Mangio con i piccioni.
Non perché parli davvero con loro, non sempre, ma perché almeno loro non si aspettano che io sorrida al momento giusto.
Uno dei piccioni, lo chiamo ingegner Federico, mi osserva con giudizio. Sospetto che sappia tutto del mio curriculum.
Mi lascia in pace dopo che gli offro un pezzo di cracker. È una forma di rispetto interspecifico.
Alle 14:35, durante una riunione, mi perdo nei bordi del tavolo. Seguono una curva lieve, impercettibile, come una promessa non mantenuta. Mentre parlano di budget, io calcolo quante volte potrei camminare avanti e indietro sulla linea tra la moquette e il muro senza impazzire.
Risposta: quarantadue. Ma solo se nessuno mi guarda.
Alle 17:00 ho finito di essere normale. È estenuante. Torno a casa e mi tolgo la giornata di dosso come un vestito troppo stretto. Accendo il bollitore. Il mio amico immaginario è già lì, sul divano.
«Com’è andata?»
«Ho quasi sorriso al momento giusto.»
«Wow.»
«Sì. Poi ho parlato con un piccione ingegnere»
«Come al solito, quindi.»
Annuisco. Mi siedo. Apro il quaderno delle cose che hanno senso. È piccolo, ma cresce ogni giorno.
