Avevo prenotato ieri sera. Volevo fare bella figura. Prima uscita con una ragazza conosciuta alla convention del mattino. Lei lavora nel marketing, si definisce un brand umanissimo.

Quando siamo arrivati in piazza Garibaldi, c’erano già le bandiere. Rosse. Tante. Lei ha storto il naso. Io pure. Non per convinzione. Per riflesso. Alcune piazze sanno di comizio, pensavo.

Ci siamo seduti lo stesso. Tavolino d’angolo, vista su una folla in piedi.

«Che succede?», ha chiesto, senza aspettare risposta. Stava già facendo una storia Instagram sulla pizza più costosa del menù.

Poi è arrivata la voce dalle casse. Era Landini. Lei ha alzato gli occhi. Io ho sorriso per cortesia. Ma pensavo: «Ancora? Davvero credono che due urla cambino qualcosa?»

Lavoro nella finanza e lo so bene come va il mondo. Ho studiato per questo. Numeri, proiezioni, ottimizzazione. Tagli, leverage, rendimento. Le imprese si salvano o si vendono. I lavoratori si contano a bilancio, tra i costi.

Li vedo, i miei clienti. Incassano, delocalizzano, parcheggiano i soldi nei fondi. E i dipendenti? Una voce in uscita. Come la corrente. Chissenefrega di loro. Non è personale, è sistema. Tutto torna, basta non guardare troppo lontano.

A un certo punto Landini ha detto: «Ieri ero a Trento…»

Ho avuto un sobbalzo. Trento è casa mia. E quella voce l’avevo già sentita.

Mi è tornato in mente un tipo con gli occhiali che il giorno prima, sotto i portici, mi aveva dato un volantino. Non l’avevo letto. Per abitudine lo avevo riposto nella tasca della giacca.

L’ho tirato fuori. Spiegazzato. C’era scritto: Referendum sul lavoro. Vota SÌ per cambiare. Ho riconosciuto la voce. Quel tipo con gli occhiali era proprio lui. Landini. In persona.

Gli avevo detto solo: «Grazie.»

Aveva risposto qualcosa, con la stessa voce che ora rimbombava in piazza.

All’inizio non l’ho ascoltato. Parlava di diritti, salari, dignità. Parole grosse, da comizio. Nel mio mondo si chiamano rigidità. Variabili da ridurre.

Ma quella voce non si alzava. Scavava. Non cercava consensi. Resistava. Diceva che non si può vivere in un Paese dove il lavoro è un ricatto e i diritti un fastidio.

Ho sentito qualcosa. Non emozione. Qualcosa che stonava. Una nota fuori scala. Un fastidio che non portava margine. Una crepa.

E lì, nella crepa, si è infilato un ricordo. Mio padre. Tuta blu, sveglia all’alba, mani rovinate. Aveva fatto i turni per vent’anni per mandarmi alla Bocconi. Mai una vacanza lunga. Mai un lamento.

Diceva: «Tu studia. Fallo per non dipendere da nessuno.»

Ma io non avevo capito. Quella possibilità non era un mio merito. Era figlia di un sistema che ora disprezzo. Di tutele che oggi chiamo rigidità.

Io il salto l’ho fatto.  Solo che quel salto non è stato poi così lungo.

Lavoro dodici ore al giorno. Vivo in una stanza in affitto, cucina in comune. A trent’anni. Ma hey, sono nella finanza. Alla convention ero arrivato con il regionale. Airbnb condiviso. Bagno sul pianerottolo. Per cena pizza, altrimenti rischio di sforare il plafond.

Il mio capo, intanto, continuava a mandare meme da una terrazza a Singapore. Io contavo i giorni allo stipendio. Lei parlava di Mykonos, dei voli in offerta. «Se si vota domenica, mi rovina il weekend», ha detto.

Ho annuito. Ma dentro sentivo un rumore. Come qualcosa che si stava incrinando.

Una parte di me voleva alzarsi. Ma sono rimasto seduto. Ho finito la pizza. Ho pagato. Ho sorriso.

«Allora ci vediamo sabato?»

«Forse. Devo vedere una cosa.»

Non ho detto cosa. Perché non lo sapevo nemmeno io. E continuavo a chiedermi se quella voce mi avesse dato fastidio perché diceva qualcosa che cercavo di non sentire da anni.

Forse non andrò a votare.

O forse sì.

Dipende.

Da cosa?

Solo da me.


Una replica a “La crepa”

  1. Avatar sofiadelussu
    sofiadelussu

    C’è bisogno di risvegliare la coscienza civile di ciascuno di noi.

    Intanto andiamo a votare l’ 8 e 9 giugno. Ricominciamo da lì. Magari evitiamo ai nostri figli lunghi anni di lacerante precariato e finta libera professione!

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