Storia semiseria di resistenza esistenziale per architetti sull’orlo di una crisi di nervi

Marta aveva fatto tutto quello che le avevano detto di fare. E anche quello che non le avevano detto, ma che le era sembrato giusto.

Aveva iniziato con la matita 2B e il righello in legno, lo stesso che usava suo cugino per segnare le mensole dritte sulla parete, anche se lui non era architetto, ma aveva una dignità geometrica innata.

Poi era passata al CAD, poi al 3D, poi al BIM, come se ogni passaggio fosse una scorciatoia per il futuro. Nessuno le aveva detto dove portava, ma tutti l’avevano applaudita mentre lei camminava.

Aveva frequentato un master in Project qualcosa. Non ne ricordava più nemmeno il nome, ma aveva una sigla seria e anche un bell’attestato con tanto di firma e timbro.

Lì aveva imparato a esportare file, a condividere modelli con nomi tipo R00-FIN-REV12-MUX. Aveva anche smesso di dire ‘camera da letto’ e aveva iniziato a parlare di ‘modulo notturno’.

Nessuno protestava. Anzi, annuivano compiaciuti. Anche lei.

Poi, lentamente, senza che nessuno suonasse un gong, era arrivata l’intelligenza artificiale. All’inizio divertente. Poi efficiente. Poi invadente. Poi gratuita.

Un giorno un cliente le aveva mandato una planimetria fatta da un’app che si chiamava tipo EasyPlan4U e aveva scritto: « Può solo sistemarla un po’? È già carina così. »

Marta aveva guardato la pianta, poi il muro e poi si era chiesta se il muro fosse più concreto della sua professione.

Non venne licenziata. Nessun dramma. Peggio. Fu dimenticata. Le mail si fecero rare. Poi solo promozionali. Le notifiche diventavano eventi lontani, dove nessuno le chiedeva se potesse portare qualcosa.

I file sul desktop non sparivano, ma si lasciavano coprire di polvere digitale, come vecchi soprammobili. Marta cominciò a svegliarsi tardi. A pranzare con biscotti stantii. A ignorare il citofono con la perizia di un monaco zen.

Il suo computer, una volta fedele compagno, sembrava un vecchio armadio. Apriva cartelle per il solo gusto di richiuderle. Sistemava le icone come chi rifà il letto anche se dorme da solo. C’era ancora il BIM lì dentro, come un animale ibernato. Ma lei non aveva più il coraggio di aprire la gabbia.

Quel giorno, entrò in cucina. Non per cucinare. Ma per fame.

Una fame bassa, grigia, senza entusiasmo. In frigo, una carota sopravvissuta, del parmigiano secco, lenticchie vecchie di due cene. Nessuna foto Instagram. Nessuna storia. Solo ingredienti con la dignità dell’ultimo minuto.

Aprì l’anta sopra il forno, quella che funzionava da museo dei regali inutilizzati. E lì lo vide. Il BIMBY, ancora avvolto nella sua pellicola lucida, come un robot in attesa di chiamata. Regalo della suocera, accompagnato dalla frase sibillina: «Ti semplificherà la vita».

Marta, allora, aveva pensato che la ‘vita’ a cui si riferiva fosse l’inferno domestico che il marito avrebbe scatenato, prima o poi, scoprendo che lei non sapeva cucinare nemmeno un uovo.

E invece lo tirò fuori. Così. Per capriccio o per resa. Collegò la spina. Sfiorò lo schermo. Scelse ‘vellutata di carote’. Non per desiderio. Per inventario. Una carota ce l’aveva.

Ci mise dieci minuti a capire come montare il coperchio. Sbagliò verso. Il tappo sembrava progettato per farla sentire stupida. La carota scivolò sul pavimento e rotolò via con dignità.

Ma quando il BIMBY iniziò a ronzare, basso, calmo, regolare, come un treno vuoto in corsa lenta, qualcosa accadde. Un processo si compiva. Niente revisioni. Nessun commento in rosso. Nessuna deadline.

Frulla, cuoce, aspetta. E lei, coprendo la macchina con lo strofinaccio buono, si mise a guardare fuori dalla finestra. Un gesto minuscolo, ma nuovo.

La vellutata venne troppo liquida. Ma profumava. Scaldava. E quel cucchiaio caldo fu il primo progetto completato da Marta dopo mesi. Solo che non l’aveva disegnato. L’aveva cucinato.

Il video

Il video partì da solo. Un autoplay, come tanti, mentre lavava il boccale. 5 Ricette BIMBY che non puoi non provare. Titolo urlato, musica da supermercato del giovedì. Voce maschile rassicurante, da sconto sulle piastrelle.

Lo chef era uno con la camicia a quadri, l’aria da barista onesto. Cucinava bene. Tagliava con decisione. Mescolava con efficienza. Ma dopo un po’, Marta iniziò a provare un fastidio strano. Come un prurito logico.

Era tutto identico. Sempre la stessa cucina bianca, la luce fredda, lo stesso bicchiere nel fondo dell’inquadratura. E il ritmo, sempre lui. Taglia, inserisci, frulla, cuoci, impiatta. Nessuna variazione. Nessun errore. Nessuna voce fuori campo. Nessuna vita.

Non era noia. Era malinconia. Quel cibo, perfetto, sembrava cucinato nello spazio. Come se fosse stato pensato per sopravvivere, non per nutrire.

Mancava tutto il resto. Il rumore della sedia. Una voce che chiedesse: «Posso assaggiare?» Un gatto molesto. Un’amica che bussa.

Architettura ?

Il giorno dopo, Marta tirò fuori il taccuino rigido, quello da cantiere. Copertina vissuta, fogli pieni di calcoli vecchi e schizzi defunti.

Girò pagina. Scrisse: «Luoghi per mangiare davvero.»

Non disegnò cucine. Disegnò posizioni. Intimità. Usi. Una sedia accanto al termosifone. Una mensola bassa per colazioni solitarie ma dignitose. Una luce calda sopra un tavolo ruvido, abbastanza stretto da costringere a passarsi il pane.

Non cercava la bellezza da copertina. Cercava i gesti. Dove si appoggia la mano? Cosa si vede mentre si mastica? Cosa succede mentre si beve l’ultimo sorso?

Sperimentò. Mise due sedie in cucina. Si sedette. Poi si alzò. Cambiò la luce. Avvicinò il pane. Allontanò il sale. Guardava. Provava. Sbagliava. Riprovava. Ogni tentativo era una microarchitettura del vivere.

E poi, iniziò a parlarne. Con la vicina che cenava in piedi. Con l’ex collega rider che mangiava davanti al volante. Con la madre stanca che cucinava solo per dovere. Non propose miracoli. Propose angoli.

Un cuscino sotto la sedia. Una presa spostata. Una lampadina accesa con una cordicella da tirare. Come una candela con l’interruttore.

Non lo chiamò progetto. Né lavoro. Né design. Era più simile a una mania contagiosa. Gente che arrivava con fotografie sgranate, mappe fatte a penna, racconti a voce bassa: «Mangio male perché non ho spazio.» «A pranzo sto in piedi, a cena davanti alla TV.»

Lei ascoltava. Poi andava. Con il metro, il taccuino, e le mani. Mai grandi cantieri. Solo piccoli scarti. Una sedia girata, una mensola fatta con una tavola da stiro, un’ombra ben messa.

Il BIMBY era il suo complice. Non solo cuoceva. Teneva il tempo. Un riso in cottura era il tempo per sistemare una tenda. Una crema densa, la finestra per aggiustare la luce. Diventò una specie di timer della presenza.

Qualcuno la ringraziava. Nessuno le diceva «sei una professionista». E lei nemmeno lo voleva. Bastava il suono del cucchiaio che batte piano sulla ciotola.

Fece stampare un foglio. Bianco e nero. Piega in tre. «Spazi da pasto. Se vuoi mangiare meglio, chiama Marta.» Li lasciava nei negozi di ferramenta, nelle biblioteche rionali. Nei posti dove si entra senza badge.

Un giorno la chiamò una scuola. Mensa rumorosa, bambini distratti. Volevano un posto dove si parli di più e si butti via meno. Lei non fece disegni. Si sedette a mangiare con loro. Cambiò la posizione dei tavoli. Il giorno dopo qualcuno chiese il bis. Due volte.

Epilogo

Marta non tornò mai architetta nel senso in cui aveva cominciato. Gli studi erano pieni di algoritmi, le gare vinte da modelli generativi, le città ridisegnate da chi non ha corpo ma calcolo. La chiamavano ottimizzazione. Ma era solo distanza.

Un’intelligenza artificiale può disegnare una casa. Può anche scegliere colori, proporzioni, materiali sostenibili. Ma non sente il rumore di un cucchiaio che sbatte contro il piatto. Non conosce l’attesa del ragù che deve ‘pippiare’. Non sa cosa succede quando due persone mangiano la stessa cosa, nello stesso spazio, senza dire niente e si capiscono lo stesso.

Marta non aveva sostituito l’AI. Aveva smesso di competere con lei. Aveva scelto un campo dove serviva ancora una voce, una presenza, una sedia messa un po’ più in là.

E lì, dove il mestiere sembrava finito, aveva cominciato un gesto più piccolo ma più vero.

C’era una frase, letta sui banchi dell’università, che le era rimasta in testa come una briciola sotto al tavolo: «L’architetto deve saper progettare tutto, dal cucchiaio alla città.»

Ci aveva messo anni a capirla.

Alla fine, aveva capito che bastava cominciare dal cucchiaio.


2 risposte a “DAL BIM AL BIMBY”

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